Dalle lettere ai genitori del beato Stefano Sándor, martire.
(Positio super martyrio, pp. 287-288; 290-291)
«Prego per voi ogni giorno e faccio menzione di voi ascoltando la santa Messa. Ma siamo tenuti a sopportare quel dolore con pazienza e senza lamentarci e a non dire una sola parola di protesta contro Dio per averci dato quella sofferenza. Tutti hanno da soffrire, i ricchi come i poveri. Nessuno può sottrarvisi. Ha sofferto perfino Gesù Cristo e la Vergine Madre. E per chi hanno sofferto loro che erano senza peccato? La sofferenza del Signore Gesù è cominciata fin dalla sua nascita ed è durata fino al Calvario, e così anche per la Madonna. E quanta pazienza il Padre celeste. Quante cose ci narra infatti la Via Crucis! Non dobbiamo forse sentir vergogna, sapendo che Gesù Cristo fu flagellato, coronato di spine, beffeggiato e bersagliato di sputi? Vedendo la croce, non s’impaurì, ma l’abbracciò e la baciò, pur prevedendo i tormenti che l’attendevano. Eppure non aveva nessuno accanto, salvo la Vergine Madre. Abbandonato perfino dai suoi Apostoli fidati, sembrava abbandonato da tutti, senza trovare misericordia neppure dal Padre Eterno; sicché messo in croce esclamò: “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. La gente attorno gli lancia insulti e vituperi, mentre Lui prega per loro: “Padre mio perdona loro, perché non sanno quel che fanno”. Gesù Cristo ha sofferto per noi, per farci pervenire al cielo, mentre noi non vogliamo soffrire per la nostra anima; eppure solo la sofferenza rassegnata conduce al cielo. Dobbiamo lasciarci animare dai tormenti del Signore Gesù; se la vita è difficile e piena di sventure, dobbiamo ricorrere a Lui che ci consolerà e ci darà la forza e la grazia di sopportare i nostri dolori. Dobbiamo riflettere che le sofferenze saranno seguite dalla beatitudine, che durerà eternamente. Dicevano i santi che per il cielo merita sopportare ogni pena…
Purtroppo devo anche comunicare una mia mancanza. Forse sembrerà che io abbia dimenticato il compleanno del mio caro babbo. Non l’ho affatto dimenticato nelle mie preghiere, né nella santa Comunione; ritengo che ciò valga di più di un dono costoso. Il mio spirito ha fatto il volo alla nostra casa accogliente ed ho dato sfogo all’affetto che mi colmava il cuore, ringraziandolo per tutto il bene che mi ha prodigato. Infatti, ripensando alla mia vita passata a casa, devo dire che mio padre mi ha amato come se fossi il suo unico figlio e non avesse nessuno all’infuori di me. E, quando una mattina di Avvento, firmò il suo consenso paterno, era evidente nel suo cuore di padre il dolore della separazione, ma era pronto a quel sacrificio per il bene che mi voleva e per vedere felice il figlio. Ora il babbo forse avrà già dimenticato quel giorno, ma a me viene spesso in mente, e so che, leggendo ora questa lettera, sentirà penetrargli nel cuore amorevole un segreto dolore; ma deve consolarsi, perché più è doloroso questo sacrificio, più è caro a Dio. Direi quasi che egli avesse obbligato Dio per avergli dato qualcosa di così grande e con un tale spirito di abnegazione, quale pochi genitori sarebbero capaci di fare, da offrire cioè al Signor Gesù quel che hanno di più caro. Il sacrificio di mio padre è simile a quello di Abramo, al quale Dio ha domandato la prova di sacrificare la vita del figlio per la sua gloria. Ma quello di mio padre è più meritevole, in quanto ad Abramo Dio non concesse di compierlo: gli mandò infatti un angelo per dirgli di sacrificare invece il montone trovato in un cespuglio. E se dovesse ancora sentire qualche dolore dovrà offrirlo per me, perché più sarà intenso e più mi migliorerà come religioso. Copro di tanti baci le mani del babbo sciupate dal lavoro e auguro che Dio lo faccia vivere seguendo la sua volontà, onde possiamo pervenire insieme alla beatitudine del cielo e adorarlo nell’eternità; così l’attuale separazione non darà più dolore, ma porterà una felicità ineffabile per l’eternità; che io possa diventare un religioso gradito a Dio e devoto al suo Sacro Cuore».